Eutanasia

Possono altri decidere sul proseguo della vita, anche se vegetativa, di un loro caro? 


Eutanasia

Può una condizione di coma o condizione di male irreversibile (secondo la scienza medica), legittimare la decisione di fare morire (uccidere) il sofferente?

Eutanasia è una parola che deriva dal greco e vuol dire “buona morte” o “morire bene”, ma con il passar del tempo ha assunto il significato di “provocare la morte per pietà”.

Si riferisce alla morte procurata appunto “per compassione”, con interventi che hanno lo scopo di alleviare l’agonia, o per porre fine ad una malattia incurabile molto dolorosa.

In questo caso è definita “Eutanasia attiva”, se invece si interrompono tutte le cure, per fare spazio al processo naturale della morte, è definita “Eutanasia passiva” (come il caso di Terry Schiavo, di qualche anno fa).


Questo argomento è stato oggetto di discussioni in conseguenza del disegno di legge presentato in Parlamento, riguardante l’Eutanasia passiva.

Il progetto rispetta l’art. 575/c del nostro Codice Penale che prevede, per chi uccide o “lascia morire” per compassione un malato incurabile, un minimo di pena da ventuno anni di reclusione, ridotti, secondo l’art. 579, da sei a quindici anni, se la vittima è consenziente.


ORIGINI DEL CONCETTO E DELLA PRATICA DELL’EUTANASIA

Il concetto dell’antichità pagana sull'argomento si fondava su una forma di “Eutanasia sociale”, vale a dire sull'abbandono dei malati incurabili e dei deformi, per fini di utilità collettiva.

Infatti, Platone, nel IV secolo avanti Cristo, nella sua opera sulla Repubblica ideale, affermava: “Instaurerai nello Stato una disciplina ed una legislazione che si limitino a stabilire i compiti per i cittadini sani di corpo e di anima, quanto a coloro che non sono sani di corpo li si lascerà morire“.

Tuttavia, un suo contemporaneo, Ippocrate, il più illustre medico dell’antichità, nel suo famoso giuramento, che ancora oggi i medici pronunciano quando iniziano la loro professione, diceva tra l’altro: “…Manterrò scrupolosamente questo mio giuramento con ogni forza e con tutto il mio sapere. Guidato dalla mia esperienza e dalle mie cognizioni, ordinerò un regime alimentare per curare gli ammalati, salvaguardandoli da ogni male e da ogni danno. A chiunque mi chiederà un veleno, glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo“.


Non sappiamo però se Ippocrate era favorevole o contrario all'Eutanasia sociale.

Il mondo pagano di allora aveva una concezione diversa del valore e del rispetto della persona umana.

In contrasto con il concetto pagano, gli ebrei ed i cristiani condannarono l’omicidio sotto qualsiasi forma venisse perpetrato, fondandosi sul principio biblico che soltanto Dio ha il diritto di disporre della vita e della morte: “Il Signore fa morire e fa vivere…” (1 Samuele 2:6); “…io solo sono Dio, e non v’è altro dio accanto a me. lo faccio morire e faccio vivere, ferisco e risano, e non v’è chi possa liberare dalla mia mano” (Deuteronomio 32:39).


Nel secolo XII, il primo a porsi il problema morale dell’Eutanasia fu il medico e teologo ebreo Maimonide.

Bisognerà attendere, però, fino al XVI secolo, quando Francesco Bacone, filosofo e guardasigilli del re Giacomo I d’Inghilterra, sosterrà il concetto moderno che la missione del medico è quella di restituire la salute e di lenire le sofferenze del paziente, non soltanto in vista della guarigione, ma anche allo scopo di procurare al malato inguaribile una morte serena e tranquilla.

Così, per primo si opponeva all’idea che un uomo, anche se medico, avesse il diritto, sia pure per compassione, di interrompere la vita di un malato.


APPROCCI ODIERNI

L’uomo facilmente assume posizioni estreme.

Così, da un lato la società, la tecnologia, la scienza fanno di tutto per aiutare gli handicappati ad inserirsi nella società, eliminando non soltanto le barriere psicologiche, ma anche quelle architettoniche e dall'altro, per fini utilitaristici, pensa di lasciar morire, sia pure per compassione, dei cittadini, i quali ormai non sono altro che un peso e la cui “qualità” dell’esistenza non ha più alcun valore per quanti li circondano.

Nel combattere l’Eutanasia bisogna, però, guardarsi dal sottoporre i malati incurabili a pesanti trattamenti (accanimento terapeutico) che oltraggiano la loro dignità, talvolta unicamente per motivi di studio e ricerca.

Sopprimere una vita, quindi anche l’Eutanasia, è omicidio, e non basta una legge o un consenso popolare a giustificare l’atto; non basta la falsa compassione con il pretesto di togliere o alleviare le sofferenze del malato per avere la coscienza a posto.

Coloro che agiscono così hanno da tempo la coscienza marchiata e il cuore indurito, che li hanno portati al disinteressamento della volontà di Dio.


A CONFRONTO CON IL NUOVO TESTAMENTO

Il Signore ha insegnato quanto sia importante il valore della vita umana, ad esempio, nella metafora: “Cinque passeri non si vendono per due soldi? Eppure non uno d’essi è dimenticato dinanzi a Dio; anzi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri…” (Luca 12:6-7).

Con il paragone dei passeri, Gesù ricordava ai Suoi discepoli che se Dio non trascura la vita dei passeri, dandogli un valore, quanto più ha valore quella degli uomini?

Allora, il valore della vita non è legato all'utilità che essa possiede agli occhi della società.

Procurare la morte “per compassione”, troppo spesso, maschera inconsapevoli motivi egoistici, come quello di non sollevare soltanto il malato dalle sofferenze, ma anche i parenti dal travaglio e dalla tensione che ne conseguono.


Tutto questo, però, non è cristiano, anche se l’Eutanasia a prima vista può sembrare la via d’uscita più pietosa ed umana ad un male incurabile.

Questa sicuramente non è la soluzione secondo Dio.

La vita umana ha un valore non soltanto per l’apporto che l’individuo fornisce alla società, l’essere umano non può essere valutato con una misura che non sia umana, quasi a considerarlo un animale, un po più complesso degli altri.


L’uomo è stato creato ad immagine di Dio, e questa immagine è anche nel malato terminale, sopprimere una vita è contro la volontà di Dio, anche se è decisa dal malato stesso (che in questi casi è suicidio), o dai famigliari (quando il malato non è nelle proprie facoltà), o da qualsiasi tribunale, legge e governo.

Ogni essere umano ha la possibilità ed il privilegio di entrare in rapporto con Dio, mediante Gesù Cristo, mentre nessun’altra creatura può farlo.

L’apostolo Paolo affermava il valore della propria esistenza con questa efficace dichiarazione di fede, ispirata dallo Spirito Santo: “…la vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figliuol di Dio, il quale mi ha amato, e ha dato se stesso per me” (Galati 2:20).

Eppure l’apostolo era debole e malato, in prigione e lontano dai suoi e nonostante tutto ha potuto affermare: “ …ora, come sempre, Cristo sarà magnificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte, poiché per me il vivere è Cristo, e il morire guadagno; ma se il continuare a vivere nella carne rechi frutto all’opera mia, quel che io debba preferire, non saprei dire…” (Filippesi 1:20-22).


L’UNICA, VERA E SALUTARE ALTERNATIVA

Abbiamo visto come l’Eutanasia non sia la soluzione cristiana e biblica a una malattia incurabile.

L’alternativa è quella di prendersi cura del malato grave dal punto di vista spirituale e morale; si fa il possibile per ristabilirlo fisicamente, ma quello che è più importante è la salute spirituale, molto più se ci si rende conto che si trova nella fase “transitoria”, o finale della sua esistenza terrena.

Troppo spesso la scienza dimentica che in quel corpo sofferente, colpito da una malattia irreversibile, c’è un’anima che deve essere consigliata, consolata e confortata.


Non sempre le cure mediche, anche le più efficaci ottengono risultati positivi, per cui, anche in questi casi, il malato ha di bisogno di cure affettive, morali e spirituali.

Diversamente si dimostra mancanza di affetto, di incomprensione e, la più grave, di trattarlo come un peso non sopportabile da togliere di mezzo ad ogni costo.

Spesso nei nostri ambienti cosiddetti cristiani i congiunti nascondono pietosamente all'infermo la realtà di una malattia incurabile e quest’ultimo, pur essendone edotto, la nasconde per dignità o per pietà ai propri cari.


Con queste attitudini si arriva all'ora estrema senza alcuna preparazione spirituale, aggravati e appressati, non avendo la consapevolezza di essere, forse, davanti al momento più importante della propria vita.

La vita dell’uomo ha un’altra dimensione oltre a quella terrena e visibile: la vita eterna.

Questa è quella che ha più valore davanti a Dio; ma non per questo Egli declassa o incoraggia il declassamento della vita naturale su questa terra.


Gesù ha detto: “…lo sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muoia, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morrà mai” (Giovanni 11:25-26).

La compassione cristiana spinge il vero credente, il singolo cristiano, la comunità cristiana e i governi cristiani, a consolare gli afflitti, a consigliare gli incerti, ad annunciare l’amore e la misericordia di Dio in Cristo Gesù; a dare speranza, oltre che per la vita futura, anche per quella presente e terrena e, nei casi dei governi, a legiferare in modo da garantire cure e trattamenti adatti, non solo medici.

I veri credenti hanno la fede nel Dio della Bibbia, che è capace, non solo di guarire malattie e mali incurabili, ma anche di risuscitare i morti.


Ma se per questi malati incurabili e terminali è arrivata l’ora della loro dipartita, avremmo lo stesso realizzato lo scopo di Dio quando quelli possono dire, insieme all'Apostolo Paolo: “…il tempo della mia dipartita è giunto; ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbata la fede, adesso mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno” (2 Timoteo 4:6-8).

Commenti